mercoledì 31 gennaio 2007

Le Scienze si rinnova

E’ con grande piacere che vi annuncio che il sito web di Le Scienze è stato rinnovato. Ci voleva proprio!
Quello vecchio aveva una grafica minimalista, con ben pochi link e poche icone dove puntare il cursore e cliccare (cosa che a noi surfisti del web piace molto). Insomma, lo avrei definito striminzito e retrò. Non si addiceva certo ad un sito del XXI secolo per una rivista importante come Le Scienze. Forse rispecchiava di più la sua età… Si perché Le Scienze ha quasi 40 anni! L’edizione italiana di Scientific American, la più prestigiosa rivista di divulgazione scientifica del mondo, è stata creata nel 1968 per iniziativa di Felice Ippolito e Carlo Caracciolo. In questi 40 anni, Le Scienze ha pubblicato più di 3500 articoli scritti dai maggiori esperti mondiali in ogni campo del sapere, tra i quali più di 80 premi Nobel.
Il nuovo sito è bello, piacevole l’impaginazione, le foto, i colori… E qui si che c’è da cliccare! Tra le novità ci sono i titoli delle news a portata di mouse, le recensioni di svariati libri, dei video, e dei blog. Questi blog sono organizzati con articoli scritti dalla redazione, sui temi più “caldi” e interessanti della scienza, ai quali ogni lettore può aggiungere un suo commento. E poi vi sono i link ad altre riviste come il National Geographic, Mente&Cervello, MicroMega… e cosa interessante i link alle edizioni internazionali di Scientific American, da quella originale americana a quella tedesca, francese, brasiliana, russa, cinese, giapponese … chi più ne ha più ne metta! E per finire ovviamente ci sono le anteprime delle prossime uscite in edicola.
http://lescienze.espresso.repubblica.it/ ....... Buona navigata!

martedì 30 gennaio 2007

Parlando in soldoni...

I soldi europei per i prossimi 7 anni.
Non è ancora lo «spazio europeo della ricerca», auspicato da Antonio Ruberti. E non è neppure lo strumento operativo in grado di realizzare la grande utopia di Lisbona: fare dell´Europa il leader mondiale dell´economia della conoscenza. Ma il Settimo Programma Quadro dell´Unione Europea (FP7) per la scienza e la tecnologia è un buon passo verso la giusta direzione: creare una politica comune per la ricerca tra i 27 stati membri e consentire all´Europa di avere un ruolo da protagonista nella nuova geopolitica del sapere scientifico.
FP7, che è partito il primo gennaio e terminerà fra sette anni, il 31 dicembre 2013, viene presentato ufficialmente lunedì 29 gennaio a Roma, a Palazzo Corsini, presso l´Accademia nazionale dei Lincei, dal Commissario europeo per la ricerca, Janez Potocnik, dal Ministro per l´università e la ricerca, Fabio Mussi, e dal Ministro per le politiche europee, Emma Bonino.
Il programma ha una dotazione complessiva di 53,2 miliardi di euro, cui vanno aggiunti altri 2,8 miliari assegnati ai progetti Euratom (ricerca nucleare), per un totale di 56 miliardi di euro. In pratica nei prossimi sette anni Bruxelles spenderà 8 miliardi di euro in media l´anno per la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico. Non è poco. Ma non è neppure moltissimo. Si tratta del 4% della spesa complessiva per la ricerca realizzata nell´Unione (circa 200 miliardi di euro l´anno). Certo, a queste cifre andrebbe aggiunta la spesa comunitaria per incentivare la ricerca industriale. Ma è altrettanto certo che oltre il 90% degli investimenti in ricerca in Europa sono decisi a livello nazionale, secondo progetti poco coordinati tra loro e spesso addirittura divergenti. Tuttavia i fondi messi a disposizione dello scienziato europeo dal Settimo Programma Quadro sono del 60% superiori a quelli messi a disposizione dal programma precedente. Un discreto salto, dunque, che punta nella giusta direzione.
Ma non si tratta solo di quantità. FP7 rappresenta anche, e forse soprattutto, un salto rilevante per qualità. Perché, nell´ambito del Programma «Idee», finanzia con un miliardo di euro l´anno la creazione del Consiglio Europeo della Ricerca (CER). Un´agenzia europea che ha due caratteristiche davvero innovative. Il CER, infatti, finanzierà, proprio come l´americana National Science Foundation, ricerca fondamentale - o, come si dice adesso, curiosity-driven - sulla base del solo criterio dell´eccellenza, senza badare ad alcun altro fattore geopolitico. È la prima volta che Bruxelles finanzia la ricerca di base, settore tenuto finora gelosamente sotto il proprio monopolio dai governi nazionali. Per questo rappresenta un passo, magari piccolo ma molto significativo, verso lo «spazio europeo della ricerca». Tanto più che la gestione del Consiglio Europeo della Ricerca sarà tutta e solamente scientifica, senza alcun intervento politico.
FP7 ha altri tre grandi settori di intervento. Il Programma «Capacità» finanzierà (con 4,1 miliardi complessivi) la creazione di strutture comuni di ricerca. Ambito nel quale l´Europa vanta già grandi tradizioni (basti pensare al Cern di Ginevra), ma che va ampliato sia per sostenere grandi progetti di ricerca sia per creare più luoghi fisici di incontro degli scienziati europei e cementare l´idea di un´impresa comune.
Il Programma «Persone» provvederà, con 4,8 miliardi di euro, a finanziare la mobilità degli scienziati tra i diversi paesi ma, soprattutto, le capacità e l´intraprendenza dei giovani scienziati. In quasi tutti i paesi europei, infatti, i giovani - anche quelli bravissimi - faticano a trovare spazio. Quello spazio che viene spesso concesso loro in paesi più aperti. La speranza dunque è che FP7 conceda ai giovani valenti quegli spazi negati dai loro paesi.Il Programma maggiore di FP7 è, tuttavia, quello denominato «Cooperazione», con una dotazione di ben 32,4 miliardi di euro. Si fonda sulle medesime regole del passato. Chi vuole fare ricerca in questo ambito, deve trovare necessariamente dei partner in altri paesi. Con tre svantaggi per lo scienziato europeo: la necessità di creare partnership forzate e con un vago fumus geopolitico, la necessità di inviare montagne di carte a Bruxelles, la necessità di proporre progetti che piacciano ai «burocrati di Bruxelles». Tuttavia il programma ha un aspetto positivo: obbliga gli scienziati europei a cooperare tra loro. A pensare europeo. Che è una condizione forse non sufficiente, ma certo necessaria per creare lo «spazio europeo della ricerca». E per consentire all´Unione se non di diventare leader, quanto meno di non farsi staccare troppo da altre aree geopolitiche del mondo nella corsa verso la società della conoscenza.
di Pietro Greco - L'Unità 29-01-07

venerdì 26 gennaio 2007

Fumo, un vizio del cervello

Si chiama insula, è una piccola area situata in profondità nella nostra corteccia cerebrale, ed è responsabile della dipendenza da fumo. Lo rivela uno studio effettuato da alcuni ricercatori della University of Southern California di Los Angeles e pubblicato oggi su Science. La fonte d’ispirazione di questa ricerca è stata un paziente, un accanito fumatore che dopo aver subito un danno all’insula, a seguito di un ictus, ha smesso di fumare da un giorno all’altro senza più sentirne nessuna esigenza.
L’insula riceve segnali da svariate parti del corpo ed è associata al nostro sistema limbico. E’ quella parte del cervello che traduce i segnali in sensazioni, quali fame, sofferenza o bisogno al consumo di droghe. “L’ostacolo più difficile da superare, in qualsiasi forma di dipendenza, è bloccare lo stimolo di fumare, assumere droghe o semplicemente mangiare – ha affermato Antoine Bechara, autore del lavoro – adesso abbiamo identificato un elemento sul quale approfondire la ricerca”. I ricercatori hanno infatti esteso il loro studio a 69 pazienti, fumatori, che hanno subito una lesione cerebrale. Su 19 pazienti con danno a carico dell’insula, 12 hanno smesso di fumare senza nessuno sforzo. Per gli altri pazienti, con altre forme di lesioni, la correlazione tra danno al cervello e lo stop al fumo è risultata molto meno marcata.
Ovviamente, procurare un danno al cervello non è una terapia da prendere in considerazione, ma questi risultati aprono la strada alla progettazione di nuovi farmaci anti-fumo che colpiscano l’insula. “Questa regione del cervello è responsabile della funzione di molte nostre attività quotidiane – sottolinea Bechara – bisogna quindi procedere con cautela e assicurarsi che interferendo con il fumo non si tocchino funzioni vitali come l’alimentazione”. Nel futuro più immediato, invece, si può pensare di monitorare l’effetto che hanno le terapie già in uso sull’attività dell’insula.

giovedì 25 gennaio 2007

E c'è chi smette di esplorare...

Trovare vita nello spazio non è più una priorità
Non c´è solo il taglio secco del 50% nei prossimi due anni al budget dell´Istituto di Astrobiologia (NAI) e a tutti gli studi della vita nello spazio fuori dalla Terra, annunciato nei giorni scorsi dalla rivista americana Science. C´è anche che Michael Griffin, il direttore dell´agenzia spaziale americana, parlando la scorsa estate alla Mars Society ha detto chiaro e tondo che gli studi di esobiologia sono marginali nell´ambito della missione della Nasa. In gioco c´è la sopravvivenza stessa dell´astrobiologia come settore di ricerca scientifica emergente.
Una posta altissima. E tanto più inattesa, perché la crisi giunge in un momento in cui la ricerca della vita fuori dalla Terra può enumerare una quantità di risultati nuovi e non banali. Indizi probanti per la presenza di acqua liquida su Marte. La scoperta di nuova materia organica sulle comete e su oggetti che viaggiano ai confini del sistema solare. La scoperta di centinaia di pianeti che orbitano intorno a stelle diverse dal nostro Sole, alcuni di dimensioni compatibili con la presenza della vita così come la conosciamo. La scoperta, qui sulla Terra, di organismi viventi (batteri) che vivono in condizioni davvero estreme: sotto terra, sotto il mare e nei deserti ghiacciati più inospitali. Certo, nessuno ha finora scoperto la clamorosa pistola fumante: un batterio, un organismo alieno, nato lontano dalla Terra ed estraneo all´unica storia di vita conosciuta, quella terrestre. Tuttavia si tratta di osservazioni e scoperte che magari dicono poco al grande pubblico e che non scaldano il cuore dei politici, ma che allargano la finestra di probabilità che lì fuori ci sia qualcosa che pulsa e si riproduce: insomma, che vive.
Ed è proprio questa, a ben vedere, la ragione profonda della crisi dell´astrobiologia. La ragione profonda della crisi sta probabilmente nella forbice tra le promesse e la realtà. Una decina di anni fa, tra annunci di improbabili ritrovamenti di fossili di batteri marziani e di imminenti sbarchi umani sul pianeta rosso alla ricerca della vita, l´astrobiologia divenne una scienza emergente. La Nasa aveva bisogno di reinventate la sua missione, dopo la fine di un´era politica - quella della «corsa allo spazio» tra Usa e Urss quale punta avanzata della guerra fredda. E la ricerca della vita fuori dalla Terra fu considerata come quella più capace di scaldare il cuore dei contribuenti e, di conseguenza, dei politici. D´altra parte scoprire un essere vivente alieno, fosse anche solo un semplice batterio, si imporrebbe davvero come uno dei più grandi risultati scientifici di tutti i tempi.
La Nasa investì molto in questo progetto. Creando un istituto, il NAI appunto, dotato di un budget ricco di decine di milioni di dollari e di ottimi ricercatori, in grado di produrre ottima ricerca scientifica. Ma creando anche moltissime attese. Abbiamo continuato ad avere, in queste dieci anni, la sensazione che fossimo lì lì per scoprire forme di vite tra le rocce di Marte o i ghiacci di Titano.
Sensazione puntualmente frustrata. Perché i tempi della scienza non sono quasi mai i tempi della politica e dell´immagine. I soldi investiti dalla Nasa nell´astrobiologia hanno prodotto buona ricerca, anche se non hanno trovato la pistola fumante. Ora è come se alla Nasa avessero scoperto che quella in astrobiologia è una ricerca di lungo periodo e di incerti risultati. Quindi non è più strategica per l´agenzia, che ha bisogno di ricerche che scaldino il cuore della gente. E che raggiungano risultati tanto eclatanti quanto immediati.
Qualcuno sostiene che, dopo questa decisione della Nasa, l´asse della ricerca in astrobiologia si sposterà in Europa. Ce lo auguriamo. Non solo perché è un filone di studi che merita attenzione. Ma anche perché ciò confermerebbe che nel nostro vecchio continente c´è un ambiente più adatto per ricerche che avvengono lontano dai riflettori, con ritmi e prospettive diverse da quelle apprezzate dalla società dell´immagine.
di Pietro Greco - L'Unità 23-01-07

mercoledì 24 gennaio 2007

Un cerotto contro l'Alzheimer

Un vaccino transdermico contro la proteina beta amiloide – quella che accumulandosi a livello cerebrale provoca le tipiche placche che caratterizzano la malattia di Alzheimer – è stato messo a punto da ricercatori dell’Università della Florida. Il vaccino si è dimostrato in grado di ridurre sia la formazione delle placche sia, almeno in parte il declino cognitivo dei topi a cui era stato somministrato.
“Altri studi avevano dimostrato la capacità del vaccino di alleviare alcuni sintomi della malattia di Alzheimer – ha detto Jun Tan, autore dello studio che è stato pubblicato sull’ultimo numero di PNAS – questa ricerca è la prima però che ne dimostra l’efficacia anche per somministrazione transdermica". L’importanza del risultato è legata al fatto che i trial clinici, intrapresi tempo addietro per testare la possibilità di utilizzare il vaccino contro la proteina beta amiloide, erano sati sospesi a seguito del manifestarsi di intensi effetti collaterali. Questi erano legati a una reazione autoimmune che, sia pure in un numero molto ridotto di casi, aveva portato perfino al decesso del paziente. I ricercatori hanno ora scoperto che la vaccinazione attraverso un cerotto transdermico contro la proteina beta amiloide permette di evitare l’innesco di questo tipo di reazione negativa. Ciò sarebbe legato al fatto che nel derma la prima e più cospicua linea di difesa dell’organismo è rappresentata dalle cellule di Langerhans. Queste svolgono un’azione di “tampone” capace di stimolare la risposta immunitaria anti-proteina amiloide senza scatenare la reazione autoimmune inescata quando l’identificazione dell’antigene avviene in prima battuta da parte dei linfociti presente nel torrente ematico.
"Se tutto procede regolarmente, speriamo di poter mettere il vaccino in commercio entro i prossimi 6 anni" hanno affermato i ricercatori dell’Università della Florida.
Fonte: Le Scienze 23-01-07 e The Guardian Science 23-01-07
http://www.guardian.co.uk/science/story/0,,1996328,00.html

martedì 23 gennaio 2007

Staminali ottenute con partenogenesi

Per la prima volta al mondo, alcuni ricercatori argentini sono riusciti a far sviluppare degli ovuli congelati di donna senza l'intervento degli spermatozoi. L'esperimento è stato guidato da Ester Polak de Freid del CER e da un altro argentino, José Cibelli - uno dei pionieri della tecnica di clonazione - dell'Università del Michigan. In questo caso non è stata usata la discussa tecnica di clonazione, bensì la partenogenesi o riproduzione asessuata. In futuro questa tecnica potrebbe fornire cellule staminali "autoriparatrici", utilizzabili da donne affette da malattie come l'Alzheimer, il Parkinson o il diabete. Questa modalita' di riproduzione - che in natura riguarda alcune specie come le formiche, le pulci d'acqua, le api o determinate piante – si basa sull'attivazione dell’ovulo, chiamato partenote, senza l'apporto dei cromosomi maschili.
Il processo e' iniziato con lo scongelamento di ovuli crioconservati di donne intorno ai 32 anni. In seguito, mantenuti in un'incubatrice a una temperatura adeguata, sono stati attivati, ovvero indotti artificialmente a svilupparsi, con sostanze chimiche. E’ cosi iniziata la divisione cellulare con la formazione di blastocisti. “Con la partenogenesi gli ovuli si comportano come se fossero fecondati da spermatozoi – hanno spiegato gli autori dello studio - ma una blastocisti ottenuta con questa tecnica non potrebbe mai dar luogo a un essere umano perché priva di cromosomi maschili”. Quattro blastocisti sono state poi collocate su uno strato di cellule ombelicali, per provocarne l'adesione e sviluppare cellule staminali. E così, le donne potrebbero conservare gli ovuli per mettere al sicuro il proprio futuro. E' un precedente che apre una grande aspettativa. Se finora le donne conservavano gli ovuli per tentare d'avere un figlio con la fecondazione assistita, oggi hanno un motivo in più per farlo. Se, a conclusione del processo di partenogenesi, si ricavano cellule staminali, e se esse sono in grado di costituire una cura effettiva contro malattie trasmissibili, le donne potrebbero conservare i loro ovuli come una polizza d'assicurazione per curarsi in futuro.La scoperta rappresenta un’importante novità nel campo delle molteplici ricerche finalizzate ad ottenere cellule staminali. Un tema che interessa non solo la scienza ma anche aziende e laboratori di tutto il mondo. Ad esempio, in California la società Novocell è riuscita ad elaborare un processo per cui le staminali si trasformano in cellule pancreatiche capaci di produrre insulina e altri ormoni. Un'altra applicazione potrebbe essere la rigenerazione delle cellule del muscolo cardiaco, una linea di ricerca cui si dedica anche Carlos Trainini dell'ospedale Presidente Peron de Avellaneda a Buenos Aires.
Fonte: Aduc 19-01-07
La partenogenesi:
l 'ovocita allo stadio diploide (cioè di 46 cromosomi) viene sottoposto a shock elettrico o esposto a sostanze chimiche in grado di modificare la concentrazione di vari ioni all'interno della cellula, si avvia così la proliferazione cellulare senza l'intervento dello spermatozoo. Dopo 48 ore si formano pre-embrioni di 4-6 cellule. Dopo 7 giorni circa, le cellule si sviluppano in blastocisti, cioè uno stato pre-embrionale di 32 cellule. E’ importante sottolineare che la proliferazione cellulare, nella partenogenesi umana, si arresta irreversibilmente dopo la produzione di poche cellule. Questa tecnica per ottenere cellule staminali embrionali non può quindi dar luogo allo sviluppo di un essere umano completo, neppure potenzialmente. Inoltre, la tecnica può essere effettuata soltanto per la donna. Nel caso dell’uomo verrà forse sperimentata l'inoculazione di due nuclei di cellule germinali aploidi maschili in un solo ovocita enucleato. Già nel 1983, Elizabeth e J. Robertson, della Harvard University, dimostrarono che le cellule staminali di embrioni partenogenetici di topo davano origine a vari tessuti, tra cui nervi e muscoli. Le cellule staminali eventualmente prodotte per partenogenesi, non sarebbero del tutto identiche alle cellule dell'individuo, a causa del rimescolamento di geni che avviene durante la formazione degli ovociti ma non dovrebbero indurre rigetto dopo il trapianto. I pre-embrioni ottenuti non possono neanche definirsi tali, perchè di fatto non sono l'unione di gameti maschili e femminili.

domenica 21 gennaio 2007

La Scienza della domenica

Ebbene si, anche questo blog ha il suo riposo domenicale. Quindi per oggi appendo i miei guantini alla scotta, come si dice in gergo velistico...
Lascio comunque un piccolo messaggio agli addetti alle scienze. Questa sera, alle 18 all'Auditorium di Roma, si terrà la conferenza su "Scienza e immortalità". Intervengono: Aubrey de Grey -Lo stravagante (per essere buoni) scienziato di Cambridge che sostiene che basta risolvere 7 punti della biologia cellulare per arrivare a diventare immortali http://en.wikipedia.org/wiki/Aubrey_de_Grey - Edoardo Boncinelli, Giulio Giorello e Giacomo Marramao.
L'allungamento della vita media dell'uomo è un dato oramai evidente e acquisito nella società. I progressi ottenuti questi ultimi anni nelle scienze biomediche porterranno a ridurre ulteriormente la mortalità con il conseguente aumento di anziani nella popolazioni. Questo effetto è visto come un aspetto positivo, ma fino a che punto? Nel prossimo futuro la società si dovrà occupare seriamente della questione invecchiamento, anche perché non bisogna dimenticarsi che alla vecchiaia sono collegate tutta una serie di brutte patologie come tumori, Alzheimer... E allora perché si invecchia? Fino a che età si potrà vivere in futuro? si potrà raggiungere l'immortalità? E soprattutto, se davvero fosse possibile prolungare la vita dell'uomo, sarebbe opportuno farlo?
Questi sono alcuni dei punti sui quali si aprirà la discussione questa sera all'Auditorium. Magari domani ne discutiamo...

sabato 20 gennaio 2007

Nanotecnologie: navette e polimeri

Navette invisibili viaggiano nel sangue trasportando, come borse, un prezioso carico di farmaci. Quando raggiungono le cellule tumorali liberano il farmaco, distruggendole. Lo scenario è ancora da fantascienza, ma due ricerche americane pubblicate il 18 e 19 gennaio su Science Express dimostrano che è possibile governare il cosiddetto nanomondo, ovvero si possono guidare e orientare particelle dalle dimensioni di miliardesimi di metro. Nano-cargo per farmaci: molecole capaci di "camminare" esistevano già, ma adesso sono anche capaci di portare piccoli carichi, come se trasportassero delle borse della spesa. Questo è ciò che è riuscito a realizzare il padre dei nanorobot molecolari, Ludwig Bartels della University of California di Riverside. La molecola, chiamata 9,10-ditioantracene o Dta, è composta da tre anelli di benzene legati con un atomo di ossigeno da ogni lato, ed era stata progettata due anni fa per muoversi su di una superficie piana in linea retta. I ricercatori sono ora riusciti a farle trainare due molecole di anidride carbonica, un’operazione analoga a quella svolta dall’emoglobina, la molecola deputata al trasporto dell’ossigeno e dell’anidride carbonica nel sangue. Adesso, l'idea é di sostituire il carico di CO2 con farmaci da trasportare nell'organismo e da depositare esattamente dove servono. Per questo i ricercatori dovranno anche progettare una molecola che sia capace di ruotare, assieme al proprio carico molecolare, seguendo moti curvilinei. "Essere in grado di controllare il movimento delle nanoparticelle potrebbe aiutarci a creare un sistema di trasporto naturale che in futuro potrà rivelarsi utile in molte applicazioni" ha affermato il fisico Talat Rahman, co-autore dello studio con Sergey Stolbov.

Nanoparticelle che si aggregano: Un’altra “nanonovità” arriva con lo studio condotto da ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT), guidati dall'italiano Francesco Stellacci. Per la prima volta sono state costruite nanoparticelle che si assemblano spontaneamente in modo ordinato formando dei film sottili. La ricerca è appena agli inizi, ma secondo i ricercatori gli sviluppi legati alle nanoparticelle sono promettenti, e ricordano l'evoluzione dei telefoni cellulari. "Dieci anni fa – hanno affermato- un telefonino serviva solo a fare chiamate, mentre adesso può essere usato come agenda, permette di mandare e-mail, navigare in internet o caricare file Mp3 ". Le molecole studiate a Boston sono state ottenute facendo reagire alcune semplici catene di carbonio con un metallo, ottenendo così una serie di cerchi concentrici della grandezza di pochi miliardesimi di millimetro. Da queste molecole, che presentano a causa delle interazioni elettrostatiche dei siti reattivi ai due poli, si sono ottenute catene lineari, lunghe dai 3 ai 20 monomeri, le quali hanno dato vita a strati ultrasottili . "E' la prima volta che si riesce ad ottenere dei film sottili - spiega Francesco Stellacci - fino ad oggi si era riusciti a far reagire le nanoparticelle solo in maniera caotica”. Le caratteristiche fisiche di questi film sono ancora oggetto di studio, ma questo lavoro apre la strada a nuove potenziali applicazioni di questa classe di molecole.

Fonte: Ansa 18-01-07 e ScienceExpress http://www.sciencemag.org/sciencexpress/recent.dtl

H2O - abuso mortale

Da sempre l’uomo ha considerato l’acqua come sorgente di vita. Gli antichi egizi la veneravano come principio di tutte le cose, e i pagani ne fecero una delle più importanti divinità. L’acqua è la nostra “linfa vitale” ma a volte è anche mortale. Una settimana fa, a Sacramento, sperduta capitale della California, una ragazza di 28 anni è morta per un’overdose d’acqua. Sembra uno scherzo e invece è pura realtà. Jennifer Strange ha partecipato a una gara negli studi della Kdnd (emittente locale), in palio c’era una Wii, la nuova console di casa Nintendo. Titolo della competizione: “hold your wee for a Wii”, ovvero trattieni la tua pipi per una Wii. Ai concorrenti veniva somministrato un quarto di litro di acqua ogni quarto d’ora. Scopo del gioco: vince chi beve più a lungo senza dover correre al bagno. Le cronache non riportano come si sia piazzata la povera Jennifer, ma risulta che la giovane donna sia stata stroncata da un caso di “intossicazione idrica”.
Pochi sanno che questa patologia esiste veramente, anche chiamata iperidratazione. Se nel corpo umano arriva, all’improvviso, troppa acqua si possono scatenare danni al sistema nervoso centrale. Ma come accade tutto ciò? Nel nostro corpo si stabilisce un equilibrio di potenziale elettrico tra l’interno e l’esterno delle cellule. Questo è mantenuto dagli elettroliti, sostanze che contengono ioni liberi: ioni di sodio (Na+), potassio (K+), magnesio (Mg++), calcio (Ca++) e cosi via. Il caso più tipico d’intossicazione idrica avviene quando l’immissione in corpo di troppa acqua provoca la diluizione di sodio nel plasma sanguigno. Questo porta ad uno squilibrio del potenziale elettrico e ne consegue uno scambio di acqua dall’esterno verso l’interno delle cellule. L’improvviso cambio di pressione interna provoca dei seri danni alle cellule, e se le cellule in questione sono quelle cerebrali, succede quel che è successo a Jennifer Strange. Non solo bere troppo è pericoloso, ma anche trattenere l’acqua non è affatto una buona idea. Un semplice diuretico le avrebbe salvato la vita. C’è chi ha calcolato che 3 litri d’acqua possono essere fatali ad una persona normale, ma 2 potrebbero bastare ad uccidere una persona con abitudini alimentari povere in sodio.
Ma come mai fin da bambini ci insegnano che bere tanta acqua fa bene, e da grandi ci raccomandano i famosi 2 litri al giorno per depurare il nostro organismo? Nessuno ci ha mai detto che di acqua si può morire! Diciamo pure che nessuno ci ha mai detto di trattenere l’acqua nel nostro corpo. Quindi il “take home message” è: bere si, ma senza trattenere la wee.
Fonte: Nòva del sole24ore 18-01-07

giovedì 18 gennaio 2007

Alla ricerca della memoria

L’autobiografia di Eric kandel “Alla ricerca della memoria” è appena comparsa nelle librerie italiane. La traduzione del libro originale “In search of memory” è edita da Codice ed ha un costo di 32E. http://www.codiceedizioni.it/view.php?folder=3&table=catalog_pubblicazione&ID=66
Un libro scorrevole e accattivante che ha tre principali chiavi di lettura: la storia scientifica e personale di uno dei più grandi scienziati della seconda metà del secolo scorso, un saggio storico sulle origini e l’evoluzione delle conoscenze neurobiologiche riguardanti i meccanismi alla base della memoria e dell’apprendimento, ed infine, un breve trattato divulgativo di neuroscienze.
In che modo il terrore provato da un bambino nel sentire i colpi dei nazisti alla porta di casa, la vigilia della Notte dei cristalli, si è impresso come una cicatrice nel tessuto molecolare e cellulare del cervello, con una forza tale da consentirgli di rivivere quell’esperienza a decenni di distanza? La memoria ha guidato la vita e il lavoro di Eric Kandel, e proprio con questa domanda inizia la sua autobiografia, un viaggio alla scoperta di ricordi personali e scoperte scientifiche, dai pionieristici esperimenti con la lumaca marina Aplysia fino all’avvento dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie. Decenni di ricerche che hanno dimostrato come il consolidarsi della memoria produca modificazioni fisiologiche nel nostro cervello, sviluppando e consolidando nuove connessioni sinaptiche tra i neuroni. «Se vi ricorderete qualcosa di questo libro» ci avverte Kandel, «è perché dopo che lo avrete letto il vostro cervello sarà leggermente diverso».
Eric R. Kandel è professore alla Columbia University di New York; inoltre lavora presso il Kavli Institute of Brain Sciences, di cui è direttore, e presso l’Howard Hughes Medical Institute. Nel 2000 ha ricevuto il Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia per la scoperta dei meccanismi della memoria a lungo termine, quella con la quale fissiamo i nostri ricordi. Per affrontare la sua ricerca Kandel cercò un modello biologico molto semplice, e lo trovò in una lumaca di mare, Aplysia californica, un mollusco con un cervello di appena ventimila neuroni (nell'uomo sono 110 miliardi). Scoprì così che quando Aplysia registrava un'esperienza ciò corrispondeva ad una modificazione stabile delle sinapsi, ovvero dei contatti tra i neuroni. Chi meglio di lui può quindi fare il punto sullo stato dell'arte delle ricerche nelle neuroscienze, e sugli scenari che si aprono non solo nel campo della nostra conoscenza dei meccanismi biocerebrali, ma anche in quello delle prospettive sugli aspetti curativi? Kandel vede come sfida del futuro, oltre alla cura di malattie neurodegenerative come il Parkinson e l'Alzheimer, il collegamento tra neuroscienze cognitive e biologia molecolare. Attualmente sta sperimentando nuove molecole che possano sia potenziare la formazione dei ricordi sia di cancellare le memorie di eventi traumatici che sono spesso causa di malattie psichiatriche.
E proprio domani (19 gennaio) Kandel sarà a Roma, all’Auditorium parco della musica nell’ambito del Festival della Scienza. Parlerà con Alberto Oliverio e Piergiorgio Strata di basi molecolari delle malattie mentali e dei trattamenti psicoterapeutici.

Spodestato Linneo

Una rivoluzione epocale sta per travolgere il mondo vegetale. Il sistema di classificazione delle piante non si baserà più su analogie fenotipiche come l'altezza del fusto, la forma delle foglie, il numero di petali... No, sarà la sequenza del DNA a determinare la collocazione di un albero, di un cespuglio o di una pianta a fiori in un determinato genere o famiglia. Basterà una corta sequenza di DNA per etichettare una qualsiasi pianta, diciamo come un "codice a barre". In questo momento, 130 enti di ricerca appartenenti a 40 nazioni stanno lavorando a questo ambizioso progetto che stravolgerà, dopo 2 secoli e mezzo, l'ingegnoso sistema di classificazione messo a punto da Linneo http://it.wikipedia.org/wiki/Linneo. Le nuove tecnologie di analisi di DNA si sono ormai diffuse in qualsiasi settore della biomedicina, in questo caso però ciò ha messo in crisi alcuni biologi. Si, perché la futura classificazione ci riserva non poche sorprese. Tra i casi più eclatanti della "revisione botanica" figura quello della papaia. Questa, ritenuta da sempre parente stretto del frutto della passione,risulterà con la nuova classificazione più vicina al cavolo. Il loto, da sempre parente del giglio d'acqua, risulta geneticamente più simile al platano. E che dire della bellissima orchidea che sarà presto messa sullo stesso piano dell'asparago! A questo punto vorrei prolungarmi sulla questione ricollegandomi ad un'altra novità del mondo della scienza. Proprio in questi giorni (11 gennaio) è stato pubblicato su Science un lavoro che trova finalmente una collocazione filogenetica alla Rafflesia, la pianta con il fiore più grande del mondo (tipicamente dal diametro di un metro). La Rafflesia, scoperta nell'Ottocento sull’isola di Sumatra, ha impegnato per quasi 200 anni i botanici alla ricerca di trovarle una collocazione. Determinata ora da un gruppo di ricercatori statunitense della Harvard University. La pianta in questione è alquanto insolita: è un parassita non fotosintetico, non presenta fusto, foglie, germogli o radici e deriva il suo nutrimento da una pianta della famiglia delle viti. Per risalire alla famiglia botanica a cui appartiene il gigantesco fiore, i ricercatori si sono appunto basati sulla sequenza di un certo frammento di DNA (e qui capite perché ho voluto parlarvi anche di questa novità). L’analisi genetica ha svelato che la Rafflesia è è strettamente imparentata con la famiglia delle Euphorbiaceae, che include gli alberi che producono gomma naturale, le piante dell’olio di ricino e la radice tropicale da cui si ricava la manioca. Curiosamente però i parenti più vicini alla Rafflesia sono sono caratterizzati da fiori di pochi millimetri di diametro!!! Insomma un'ulteriore esempio alla confusione che ci crea questo nuovo metodo di analisi e classificazione. Povero Linneo... o forse poveri noi... Ma questa è la scienza, e bisogna stare al passo. Presto ci abitueremo anche a questa nuova classificazione botanica e chissà magari troveremo splendide orchidee dal fruttivendolo sotto casa.
Fonte: Corriere Della Sera Scienze 16-01-07 e Nature news 11-01-07 http://www.nature.com/news/2007/070108/full/070108-10.html e da Galileo news 11-01-07 http://www.galileonet.it/news/7735/una-famiglia-per-il-fiore-piu-grande-del-mondo

martedì 16 gennaio 2007

Cibo Biotech

E' natura umana rifiutare cio' che non si conosce bene. Nel '400, quando prese piede in Occidente la stampa, furono in molti coloro che si opposero a questo nuovo metodo di diffusione della conoscenza. Il "libro" cambiava volto, ed invece di essere frutto della sapiente arte degli scriptores, diveniva un bene svalutato e di massa. La stessa reazione e' stata riservata a numerose invenzioni, dalla polifonia musicale, ai primi studi di anatomia, fino alle macchine industriali, ed Internet. E' umano, ed in fondo anche saggio, accogliere le novita' con cautela per poterne impedire i potenziali e sconosciuti effetti negativi.Negli ultimi anni, però, nel nostro Paese questa cautela si esprime spesso attraverso il totale rifiuto del "nuovo". Un rifiuto che, mirando ad esorcizzare le possibili conseguenze negative –che potrebbero anche non esserci- impedisce quella sperimentazione e studio necessari ad individuare, appunto, benefici e inconvenienti. Questo e' accaduto per la ricerca con le cellule staminali, per i prodotti geneticamente modificati, per la sperimentazione di alcune forme di limitazione del danno sulle politiche sulle droghe, e cosi via. Ora tocca alla vendita di prodotti derivati da animali clonati, a cui tutti – ma proprio tutti- sembrano opporsi. In realtà, la decisione presa il 28 dicembre 2006 dalla Food and Drug Administration (l'Ente federale per l'alimentazione e i farmaci degli Stati Uniti) non ha sorpreso più di tanto. La FDA ha dato il via libera alla vendita di carni e altri prodotti, come il latte, derivati da animali clonati. A mio avviso non ci sono motivi per pensare che questi cibi non siano sicuri, non meno di tutte quelle carni derivate da animali trattati con ormoni e chissà quante altre sostanze alle quali siamo da anni abituati.

lunedì 15 gennaio 2007

Scienza o fantascienza?

Ultimamente c'è qualcosa di strano, di malsano che ruota intorno allo studio delle cellule staminali e dell'ingegneria genetica, qualcosa che sempre più spesso tira in ballo la lettera “F” ... lettera che sta per FRANKENSTEIN! Questo succede perché le informazioni sono distorte, perché si vuole fare il solito terrorismo, o perché effettivamente neanche gli scienziati sanno più a che punto sono e fino a dove andare? Sta di fatto che in questi ultimi giorni due notizie hanno fatto il giro dei giornali mondiali. Una è l'importante decisione che deve prendere la Human Fertilisation and Embryology Authority (HFEA), autorità che regola la ricerca nel campo delle cellule staminali. Si tratta di decidere se gli scenziati possono creare degli embrioni introducendo del DNA umano in una cellula uovo di mucca. Per effettuare ciò si utilizzerebbe l'ormai nota tecnica di trasferimento nucleare. No, gli scienziati non sono impazziti, non vogliono creare una "chimera" come tanti pensano (che in biologia è tutt'altro), tantomeno un minotauro. L'embrione servirebbe solo per seguire e studiare le cellule staminali per un periodo non superiore a 14 giorni, in alcun modo lo si lascerebbe sviluppare in un individuo. E la scelta delle cellule uovo di mucca è solo perché sono ben più facili da ottenere di quelle di donna (come è intuibile). Ma certo è che la cosa spaventa... Soprattutto spaventa chi la biologia moderna non la mastica e, comprensibilmente, pensa che il mondo stia perdendo il lume della ragione. La HFEA stessa non sa più che pensare e dopo giorni di caos e confusione ha deciso di prendersi altro tempo per pensarci su. E la seconda notizia è quella della gallina dalle "uova d'oro". il Roslin Institute di Edinburgo, lo stesso centro di ricerca che diede i natali alla pecora Dolly, ha creato delle particolari galline transgeniche. Queste galline producono delle uova in cui si trovano due sostanze importanti dal punto di vista farmacologico: il miR24, un anticorpo monoclonale che potrebbe essere usato contro il melanoma, e l'interferone umano b-1a, che può essere usato per arrestare la replicazione virale nelle cellule. Che dire? forse un giorno non andremo più in farmacia ma in qualche allegra fattoria a prendere ciò che ci prescrive il medico. E allora si che aveva ragione la nostra mamma quando ci diceva che un ovetto fresco a settimana fa bene! Fonte: Nature news 7-01-07 http://www.nature.com/news/2007/070108/full/070108

sabato 13 gennaio 2007