sabato 30 giugno 2007

Nanoassalto ai tumori

Si tratta di nanoparticelle di vetro ricoperte in oro che sono in grado di localizzare i tumori e distruggerli poco dopo in un’esplosione di calore.
L’utilizzo di questo tipo di particelle potrebbe accelerare le cure contro il cancro e ridurre l’uso di farmaci spesso potenzialmente tossici. “Questo sistema potrebbe anche rendere i trattamenti antitumorali meno cari”, afferma Andre Gobin della Rice University di Houston, Texas, coinvolto nella creazione di queste particelle.
Nel 2003 Jennifer West, supervisore di Gobin, mostrò come queste nanosfere di silicio ricoperte da uno strato di oro potessero distruggere i tumori nei topi, lasciando invece intatto il tessuto sano.
I vasi sanguigni che circondano i tumori sono più sottili di quelli che si trovano nel tessuto sano, così le sfere iniettate nel flusso sanguigno tendono ad accumularsi a livello dei siti tumorali. Illuminando poi il tumore con un laser che emette vicino agli infrarossi, un gran numero di elettroni che si trovano liberi attorno agli atomi di oro viene eccitato attraverso un processo chiamato risonanza plasmonica. Un processo che libera calore uccidendo le cellule tumorali circostanti.
Comunque, prima che questo possa accadere i medici devono essere sicuri di trovare tutti i siti tumorali. Per farlo effettuano esami diagnostici come TAC (tomografia assiale computerizzata) o RM (risonanza magnetica). Questo ulteriore passaggio può portare a molteplici visite in ospedale e a più farmaci per il paziente.
Adesso il gruppo di ricercatori ha messo a punto le dimensioni delle nanoparticelle in modo tale che possano anche spargere parte della radiazione. Questo vuol dire che ogni sito cancerogeno si illuminerà sotto gli infrarossi a bassa energia e successivamente potrà essere riscaldato con il laser. “Possiamo usare una singola particella per assolvere due compiti e nessuno dei due aspetti ne risulterà sminuito” afferma Gobin.
Per realizzare questo progetto i ricercatori hanno dovuto raggiungere un punto di equilibrio. Le sfere più piccole, infatti, convertono più radiazione in calore e ciò le rende migliori nella distruzione dei tumori. Le particelle più grandi, però, riescono a disperdere più radiazione. Una caratteristica assai importante per la fase diagnostica utile alla localizzazione dei siti tumorali. In passato le sfere avevano un diametro di 120 nanometri e potevano disperdere solo il 15 per cento della luce con cui erano state illuminate. Il resto veniva convertito in calore. Il gruppo della West ha aumentato le dimensioni di queste particelle fino a 140 nanometri di diametro, riuscendo così a convertire il 67 per cento della luce in calore, disperdendone il restante 33 per cento.
I ricercatori hanno poi iniettato le nuove particelle in topi affetti da carcinoma del colon e hanno usato una tecnica denominata “tomografia ottica a coerenza di fase” per testare ler qualità diagnostiche di queste nanosfere. Questo ha comportato prima l’illuminazione del tessuto con una luce a bassa energia e vicina agli infrarossi, poi la misurazione della luce riflessa nei punti in cui veniva dispersa dalle nanosfere. Grazie a questi esperimenti è stato visto che le nanoparticelle permettono al tessuto tumorale di illuminarsi il 56 per cento in più rispetto al tessuto sano.
Il gruppo di studiosi ha poi illuminato per tre minuti ogni tumore con un laser ’infrarosso di maggiore energia, in modo tale da scaldare il tessuto. Dopo poche settimane hanno visto che i tumori erano stati quasi completamente distrutti. Infatti l’80 per cento dei topi trattati è sopravvissuto per più di sette settimane, mentre i gruppi di controllo sono morti dopo sole 3 settimane.
Poiché la tomografia ottica a coerenza di fase riesce a penetrare soltanto fino a 2 millimetri, “oggi la fase diagnostica risulta utile solo per localizzare quei tumori che si trovano in superficie, come quelli alla cervicale, nella bocca e i tumori della pelle”, sottolinea Gobin. I ricercatori stanno pensando a come modificare ulteriormente le nanoparticelle per riuscire a lavorare anche con radiazioni più penetranti come i raggi X.
La Nanospectra Biosciences con base a Houston, co-fondata da West, inizierà i test clinici delle nanosfere sugli uomini nei prossimi due mesi.
Fonte: Ulisse Scienza Esperienza 25-06-07

venerdì 29 giugno 2007

Craig Venter ce la fa di nuovo

Il famoso genetista che in passato era riuscito a mappare il genoma umano ha portato a termine un'altra promessa: trapiantare l'intero genoma da un batterio a un altro.
C'è chi la chiama alchimia batterica, e in effetti ha dell'incredibile. Utilizzando un “trapianto di genoma", una tecnica mai utilizzata prima, alcuni ricercatori sono riusciti per la prima volta a trasformare una specie di batterio in un'altra.
Si tratta dell'ultima avventura dell'americano Craig Venter, pioniere della genomica, e segna un nuovo passo avanti verso il suo più grande obiettivo, quello di poter generare forme di vita di origine sintetica. La scoperta è stata pubblicata su Science Express.
Durante questi ultimi anni, Venter ed i suoi colleghi hanno individuato quello che chiamano un genoma minimo (ovvero il più piccolo genoma possibile che premetta l'esistenza della vita), che contiene meno di 400 geni necessari a sostenere la vita di una cellula. Questo genoma è stato ottenuto eliminando sistematicamente vari geni di un batterio il cui genoma è particolarmente semplice per natura, il Mycoplasma genitalium, un parassita che viene trasmesso sessualmente e che infetta gli esseri umani.
L'obiettivo di Venter è quello di riuscire a sintetizzare chimicamente questo genoma a partire dai nucleotidi che compongono il DNA, e in seguito inserirlo nella cellula batterica.
Un primo passo per poter realizzare questo obiettivo riguarda lo sviluppo di una tecnica attraverso la quale poter sostituire il genoma del Mycoplasma con la nuova versione sintetica. La scoperta appena pubblicata relativa al "trapianto genetico" ha dimostrato che questa tecnica esiste davvero.
Il gruppo di ricerca di Venter, guidato da John Glass, del J. Craig Venter Institute a Rockville (nel Maryland, negli Stati Uniti), è riuscito a trasferire il genoma del Mycoplasma micoide all'interno di un altro parassita simile, chiamato Mycoplasma capricolum. Entrambe queste specie di batteri infettano capre, pecore e mucche.
A giudicare dalle proteine che il genoma "trapiantato" ha iniziato a sintetizzare, le cellule risultanti nel parassita che ospitava il nuovo genoma hanno dimostrato di essersi completamente trasformate nel Mycoplasma micoide.
Le cellule del Mycoplasma sono troppo piccole per poter essere modificate meccanicamente, e per questo i ricercatori hanno dovuto sviluppare laboriosi metodi chimici e fisici per poter estrarre il genoma da una specie e introdurlo nell'altra. “Si tratta di un processo molto semplice teoricamente, ma molto complesso nell'esecuzione reale", spiega Craig Venter.
Per poter estrarre il genoma, i ricercatori hanno preso un tipo di Mycoplasma micoide che è resistente all'antibiotico tetraciclina, ne hanno aperto le cellule e attentamente fatto in modo che ne fossero “digerite" le proteine, rimanendo in questo modo solo con i cromosomi circolari intatti, ovvero il DNA.
Questi cromosomi sono stati quindi incubati con cellule di Mycoplasma capricolum all'interno di un polimero che stimola le membrane delle cellule a fondersi tra loro. Secondo i ricercatori alcune cellule del Mycoplasma capricolum si sono unite tra loro, inglobando allo stesso tempo il cromosoma del Mycoplasma micoide.
Infine, i ricercatori hanno trattato le colture di queste nuove cellule con la tetraciclina, in modo che solo le cellule di Mycoplasma capricolum che contenevano il genoma del Mycoplasma micoide potessero sopravvivere.
Il trapianto ha funzionato in circa 1 di ogni 150.000 cellule, e questo è stato sufficiente per generare buone colonie di batteri trasformati, che non contenevano più il DNA del Mycoplasma capricolum.
Non è ancora chiaro esattamente come il genoma del Mycoplasma micoide si sia trasferito all'interno delle cellule, ma i ricercatori hanno notato che le cellule che contengono genomi multipli si dividono velocemente, generando cellule che contengono solo uno dei genomi presenti nella cellula madre. Alla fine del processo le cellule che contengono il genoma del Mycoplasma capricolum vengono quindi velocemente eliminate dalla presenza dell'antibiotico tetraciclina.
Venter, che ha suscitato varie polemiche tentando in passato di brevettare il suo genoma minimo, ha effermato che gli sforzi del gruppo di ricercatori di sintetizzare da zero il genoma sono ancora in fase di sviluppo.
Una volta che il genoma sintetico sarà pronto, la tecnica di trapianto genetico appena scoperta dovrebbe permettere di generare velocemente il primo batterio “sintetico". “Pensiamo che non manchi molto, ormai si tratta di settimane o di pochi mesi", ha concluso Craig Venter.
Fonte: Ulisse Scienza Esperienza 29-06-07

I am back!

Lo so, sono passate ben 3 settimane dal mio ultimo aggiornamento del blog.
Ho avuto seri problemi che mi hanno impedito di portare avanti le mie attività quotidiane di lavoro, hobbies e svago.
Ma fortunatamente le cose si stanno aggiustando e, anche se poco alla volta, tornerò a scrivere di scienza, e magari anche un pò di vela visto che siamo in piena sfida della finale dell'America's Cup.
Per adesso posso dirvi che le regate sono entusiasmanti e molto combattute, New Zealand sta dando filo da torcere ai defender.
Dopo un pareggio 2-2, oggi la vittoria è andata ad Alinghi che si porta in vantaggio per un critico 3-2. Non sono mancati emozioni e colpi di scena: New Zealand, in vantaggio di una cinquantina di metri, ha subito la rottura dello spinnaker, il secondo spinnaker non e' salito e una parte e' finita in acqua. Alinghi ne ha subito approfittato per recuperare e accumulare un vantaggio di circa 150 metri.
Peccato... Non so voi ma io tifo sicuramente Kiwi!

giovedì 7 giugno 2007

Cellule: da adulte ad embrionali

Le cellule staminali embrionali sono uniche perché possono trasformarsi in ogni tipo di tessuto, e sono per questo chiamate pluripotenti. Il trasferimento di nuclei di cellule somatiche (il cosiddetto “clone terapeutico”) offre la speranza di creare un giorno cellule staminali embrionali con il Dna del paziente stesso. Il problema è che questo Dna va inserito in un ovulo, creando così un embrione che ospita le cellule staminali e che deve essere distrutto se si vuole accedere alle cellule stesse.
Ora gli scienziati del Whitehead Institute - guidati da Rudolf Jaenisch, professore di biologia al Mit - hanno dimostrato che le cellule staminali embrionali possono essere create senza ovuli e senza distruggere embrioni: i ricercatori hanno modificato geneticamente cellule adulte della pelle – fibroblasti - prelevate da un topo e le hanno riportate allo stato pluripotente, identico a quello di una cellula staminale embrionale. La ricerca, pubblicata su Nature, mostra che le cellule “riprogrammate” possono generare topi vivi, contribuendo a ogni tipo di tessuto, e possono anche essere trasmesse alle generazioni successive attraverso sperma e ovuli.
Lo studio è iniziato nell’agosto 2006, quando un team di ricercatori della Kyoto University ha scoperto quattro geni (Oct4, Sox2, c-Myc e Klf4), chiamati fattori di trascrizione perché regolano la maggior parte delle connessioni tra gli altri geni. Se attivati in una cellula della pelle di topo, tali geni potevano riprogrammare la cellula riportandola a uno stato pluripotente simile a quello delle staminali embrionali. Un altro gruppo di scienziati del laboratorio di Jaenisch ha deciso quindi di replicare l’esperimento, e ha raffinato alcuni aspetti della tecnica grazie all'uso di virus artificiali che riescono ad attivare gli stessi quattro geni, ma cercando di individuare, tra decine di migliaia di cellule, quelle in cui è in funzione il processo di riprogrammazione, in media circa una su mille. La prova definitiva che si trattava della strada giusta è arrivata con la dimostrazione che queste cellule potevano davvero trasformarsi in ogni tipo di tessuto corporeo, compresi sangue, organi interni e pelo, e potevano essere trasmesse geneticamente.
Tuttora molti ostacoli tecnici rimangono per trasferire il lavoro alle cellule umane: “tutti questi risultati sono prove di principio, e passerà del tempo prima che possiamo sapere cosa può e cosa non può essere fatto sull’essere umano” conclude Jaenisch. “Le cellule staminali embrionali umane rimangono ancora lo standard fondamentale per la creazione di cellule pluripotenti”.
Fonte: Galileo 6-06-07

mercoledì 6 giugno 2007

Una luna eclissata...

Ancora una volta non c'è stata storia: sarà New Zealand la finalista della Coppa America, con un 5-0 rifilato a Luna Rossa nelle regate della finale di LV Cup.
I Kiwi hanno dominato la quinta regata: 20" dopo la prima bolina, altrettanti alla seconda boa, vantaggio dopo la seconda bolina e piccolo allungo nel finale: 22" il distacco finale. New Zealand si aggiudica cosi' la Louis Vuitton Cup e affrontera' gli svizzeri di Alinghi a partire dal 23 giugno per la tanto ambita Coppa America.
Per i neozelandesi si tratta della seconda vittoria della storia nella Louis Vuitton Cup, trofeo istituito nel 1983.I kiwi s'imposero anche nel 1995, con Black Magic (Nzl 32, del Royal New Zealand Yacht Squadron).
Nel loro palmares vantano anche due successi in Coppa America, conquistati nel '95, sempre con Black Magic, e nel 2000 con Team New Zealand, nella finale contro Luna Rossa.

Le spugne come origine del sistema nervoso

Le origini evolutive del sistema nervoso sarebbero molto più antiche di quanto sospettato e risalirebbero addirittura alla comparsa delle prime spugne. È quanto risulta da una ricerca condotta da biologi dell'Università della California a Santa Barbara, di cui si dà conto in un articolo pubblicato sull'ultimo numero della rivista on line PLoS ONE.
"Si dà il caso che le spugne, che sono prive di sistema nervoso, possiedano la maggior parte delle componenti genetiche per le sinapsi", dice Todd Oakley, co-autore della ricerca. "Ancora più sorprendente è il fatto che le proteine delle spugne abbiano una sorta di 'firma' che indica la loro probabilità di interagire l'una con l'altra in un modo simile a quello delle proteine sinaptiche di topi da esperimento." Questa scoperta risospinge l'origine delle componenti genetiche del sistema nervoso all'epoca dei primi animali, molto prima cioè di quanto gli scienziati avessero finora sospettato.
I primi neuroni e le prime sinapsi comparvero oltre 600 milioni di anni fa negli cnidari, creature che oggi sono rappresentate per esempio dagli anemoni di mare e dalle meduse. Le spugne, che costituiscono il più vecchio gruppo animale con rappresentanti viventi, non possiedono neuroni né sinapsi.
Il gruppo di ricerca ha compilato una lista di tutti i geni espressi in una sinapsi umana e successivamente ha controllato l'eventuale presenza di tali geni nelle spugne. "Abbiamo scoperto che una grande quantità di questi geni era effettivamente presente - ha osservato Ken Kosik, che ha diretto la ricerca - e soprattutto che questi geni lavorano insieme." In particolare, il modo in cui due di queste proteine interagiscono e la loro struttura atomica richiamano da vicino il sistema nervoso umano.
"Abbiamo trovato questa misteriosa, sconosciuta struttura nelle spugne, ed è chiaro che l'evoluzione è stata in grado di prenderla nel suo complesso e reindirizzarla, con piccole modificazioni, verso una funzione del tutto nuova", ha concluso Kosik.
Fonte: Le Scienze 6-06-07

martedì 5 giugno 2007

Luna Rossa verso la sconfitta...

L'avventura di Luna Rossa nella Louis Vuitton Cup è a un passo dall'epilogo. Lo scafo Telecom-Prada ha subito la quarta, severa lezione di match race da Emirates Team New Zealand che si è dunque portata sul 4-0 e già può concretamente pensare alla sfida contro Alinghi per la 32° America's Cup.
E' assai difficile, se non addirittura impossibile, ipotizzare una Luna in fase crescente per la regata di domani. I kiwi sembrano di un altro pianeta (come organizzazione dell'equipaggio e performance dello scafo) e il tempo rimasto a disposizione degli uomini di Francesco De Angelis è davvero insufficiente.
Il prossimo match race potrebbe già essere quello decisivo, l'ultimo della serie. Il 5-0, infatti, decreterebbe l'esclusione definitiva di Luna Rossa e darebbe ai neozelandesi la possibilità di sfidare Alinghi a partire dal 23 giugno prossimo.
La sconfitta di oggi è stata diversa dalle precedenti per il modo in cui è maturata: Luna Rossa è riuscita a partire bene (tagliando la boa sulla destra del campo di regata) e a guadagnare un buon vantaggio sugli avversari, 79 e poi 90 metri.
Tutto ha fatto presagire una regata dall'andamento (e dall'esito) finalmente positivo per lo scafo italiano ma, dopo poco, New Zealand ha innescato il suo turbo ed ha cominciato a guadagnare metri dopo metri per poi passare al comando.
Alla prima boa il distacco era di 19", poi è cominciata la lezione di match race allo stato puro. I kiwi non hanno lasciato nemmeno un piccolo alito di vento pulito agli avversari aumentando progressivamente ed inesorabilmente il divario tra le due imbarcazioni. Dal duello di virate Luna Rossa è uscita con le ossa rotte e alla fine non c’è stata storia, New zealand ha tagliato il cancello di arrivo con ampio distacco, oltre 300 metri.

lunedì 4 giugno 2007

Il circuito dell'ansia

Una spiegazione per attacchi di panico e stati d'ansia ingiustificati potrebbe risiedere in una zona ben definita del cervello ed essere del tutto fisiologica.
I ricercatori della Mouse Biology Unit presso l'European Molecular Biology Laboratory (Embl), in Italia, hanno scoperto la base neurologica degli stati di ansietà nei topi.
La ricerca, guidata da Cornelius Gross e pubblicata su Nature Neuroscience, chiama in causa il recettore A1 della serotonina (un neurotrasmettitore già noto per essere coinvolto con l'umore, la depressione e con la regolazione del sonno) e un circuito neuronale localizzato in una zona del cervello chiamata ippocampo, coinvolto nei processi di memorizzazione e integrazione delle informazioni.
Utilizzando una nuova tecnica per “spegnere” in modo selettivo l'attività di alcuni neuroni, i ricercatori hanno potuto stabilire che i topi in cui non è presente il recettore per la serotonina A1 manifestano delle reazioni sproporzionate e stati di panico quando si trovano in situazioni di incertezza. Questi comportamenti, associati a stati di paura ingiustificata, vengono meno quando si “spengono” specifici circuiti dell'ippocampo, che invece non influiscono sulle reazioni a situazioni di reale pericolo. La via neuronale che coinvolge serotonina e recettori A1 nell'ippocampo sembra, quindi, essere fortemente coinvolta nell'interpretazione di stimoli ambientali complessi e equivoci.
Dal momento che i circuiti neuronali che regolano comportamenti come la paura sono spesso condivisi tra le specie, l'ippocampo e i recettori per la serotonina potrebbero giocare un ruolo fondamentale anche negli esseri umani.
Fonte: Galileo 4-06-07

Farmaci intelligenti

Negli Stati Uniti si studiano antidolorifici in grado di bloccare i ricettori del dolore solo dove necessario, senza effetti collaterali Immaginate un antidolorifico che si attiva solo quando raggiunge l'organo da cui proviene il dolore, senza avere effetti collaterali di alcun tipo sul resto del nostro corpo. Questo è l'obiettivo di un nuovo gruppo di farmaci chiamati pH-dependent, ovvero che si basano su diversi livelli di pH (un indicatore di acidità) del corpo per sapere dove andare a colpire.
Queste nuove medicine hanno la particolarità di agire sui segnali del sistema nervoso che raggiungo il cervello e il midollo spinale, solo ed esclusivamente dove il tessuto ha un livello di acidità minore a causa di un danno o malattia. Normalmente i tessuti hanno un pH pari a circa il 7,4, ma questa cifra può scendere fino a 7,0 nei tessuti danneggiati, a causa di un minore approvvigionamento di sangue. Questo porta all'accumulazione di elementi che normalmente vengono eliminati dal sangue, come l'anidride carbonica, e a un aumento della respirazione anaerobica, che produce acido lattico.
Le nuove medicine agiscono bloccando i recettori NMDA dell'acido glutammico, che si trovano nelle cellule del cervello e del sistema nervoso centrale e sono implicati in una varietà di funzioni neuronali, tra cui la sensazione del dolore. In passato alcuni gruppi di medicine, come le ketamine, avevano già come bersaglio i recettori ìNMDA, con lo svantaggio però di provocare effetti collaterali indesiderati, come difficoltà nei movimenti o allucinazioni. Questo avviene perchè le vecchie medicine agiscono anche sui tessuti nervosi sani, dove l'effetto antidolorifico non solo non è necessario, ma può essere dannoso.
"I nuovi farmaci agiscono bloccando i recettori NMDA, che si trovano in moltissime cellule del nostro cervello e sistema nervoso centrale", spiega Ray Dingledine, della Emory University School of Medicine in Atlanta (in Georgia, Stati Uniti), che insieme ai suoi colleghi ha sviluppato un composto chiamato NP-A, ovvero quello che permettere di raggiungere e non lasciare più andare i recettori NMDA, impedendo al glutammato e al relativo neurotrasmettitore NMDA di unirsi.
Una leggera diminuzione del pH può provocare una spinta significativa nella capacità del NP-A di bloccare i recettori. Ad esempio, una diminuzione del pH da 7,6 a 6,9 permette al composto di incrementera la sua efficacia di 62 volte. "La relazione con il pH spiega perchè l'NP-A si attiva solo dove è necessario", spiega Dingledine, che ha fondato una società chiamata NeurOp per poter sviluppare ulteriormente questo tipo di farmaci. "Si tratta di un antidolorifico che funziona in base al contesto, è un nuovo tipo di strategia che fa uso di questi recettori", conclude.
Il ricercatore ha dimostrato in alcuni esperimenti che i topi soffrono molto meno dolore per una zampa ferita quando vengono trattati con NP-A. Normalmente i topi fuggono quando viene esercitata una pressione maggiore a 15 grammi su una delle loro zampe. Quando la zampa è ferita, la capacità di sopportazione scende a 2 grammi. Quarantacinque minuti dopo una iniezione di NP-A, i topi non allontanavano la zampa ferita finché la pressione non raggiungeva i 12 grammi. Grazie all'iniezione, nei topi il dolore è sparito per circa 3 ore, e gli animali non hanno mostrato alcune segnale di effetti laterali. I risultati sono stati presentati all'assemblea generale annuale dell'associazione americana Biotechnology Industry Organization in Boston, in Massachusetts, il mese scorso.
Fonte: Ulisse Scienza Esperienza 1-06-07